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Di fronte a Via Nola, il cordone di poliziotti è lo squallido preservativo tra il quartiere e l’interesse privato. Il braccio armato della proprietà. L’esecutore materiale dell’ingordigia turbocapitalista. Dentro allo spazio che il quartiere aveva guadagnato con le attività dello SCUP, le ruspe stanno abbattendo pareti, sfondando finestre, rendendo inservibili degli spazi che la comunità aveva eletto come propri. Ma poi, per farci cosa? Per rivendicare il diritto di far marcire del cibo mentre il tuo vicino muore di fame, solo perché tu hai avuto i soldi per comperarlo? E Quindi? Questa è una città che soffre di asfissia. Qualcuno ha ritenuto di usare degli spazi *vuoti* per organizzare una palestra, una sala lettura, uno spazio per bambini, tutte iniziative nobili, che gettano un ponte tra società e istituzioni, Dio solo sa quanto ci serve questa dialettica costruttiva. Quale cazzo di potere preferisce le macerie agli asili nido? Ma poi, che dire di noi?
Che dire di me?
Giulio Galati osserva quei ragazzi, incazzati neri. Poi rivolge lo sguardo ai suoi uomini; sono una quindicina, e li conosce bene, anche se ha cominciato da poco a lavorare con loro. Da Ispettore investigativo a responsabile di una squadra d’intervento: vuol dire passare da un lavoro di merda ad un lavoro di merdissima. Lui è con quei ragazzi, perché – da sempre – è ben più di una semplice guardia. È dotato di buonsenso, l’ispettore. E anche se Cederna l’ha allontanato dal suo precedente incarico, l’occhio dell’investigatore rimane, e funziona molto meglio di quello di un celerino. È più avvezzo alle piccole differenze, più attento alle sfumature concettuali, meno binario nei giudizi. Dei suoi, una buona metà ragiona più o meno come lui. Gli altri vedono solo delle zecche giustamente cacciate da un luogo occupato abusivamente, al solo scopo di farcisi le canne dentro e farci dormire degli extracomunitari, mentre gli italiani licenziati dormono in macchina. Un ragionamento talmente lineare da essere complesso da spiegare. Galati, però, deve obbedire agli ordini; sa cosa succede quando si lascia andare alle sue intemperanze. L’ispettore si trova a fare questi ragionamenti solo perché non ha saputo rendersi conto, in quel maledetto caso di Piazza Trilussa, che il potere è come un fiume carsico: intanto la parte che vedi emergere è minoritaria rispetto a quella nascosta; e poi ogni fiume ha un suo letto. Può straripare in casi eccezionali, ma poi rientra sempre nel suo percorso. Forse, segretamente, è ancora convinto che l’ultimo dei Don Chisciotte possa ribaltare il mondo della logica con la fantasia a briglia sciolta; ma al momento le cose certe della sua vita sono tre: a casa non c’è Dulcinea, ma solo Trilly. I mulini a vento li stanno mangiando le ruspe, nel cortile dello SCUP, e infine ha dei conati di vomito talmente forti che se non fosse un maschio penserebbe di essere incinta.
Le ruspe continuano, nonostante le conferenze stampa. Nonostante l’assemblea cittadina, pianificata per le 18. Altri pezzi di Italia civile che si staccano dal pak, e iniziano una lenta deriva vero il calore in cui si dissolveranno, tra l’indignazione generale e l’impotenza dei più. No, meglio non pensarci.