Allora, caro Etere.

Caduto vittima anch’io dell’onda emozionale seguita all’incursione comasca, eccomi qui a vomitare una serie di considerazioni non richieste che puzzano più di seduta di psicoterapia che di scrittura creativa.

Dunque, assunto che viviamo in un mondo fascista, mi sono ritrovato a riflettere su me stesso e sul senso del mio stare al mondo.

Spiego.

Da ragazzino ero fascista. Diciamo, fino ai quattordici/quindici anni. Ero fascista perché era da tozzi, e mi piaceva fare il duro. Roba di scarsa autostima, o d’insicurezza adolescenziale, credo. Ero in buona compagnia. Non farò i nomi, perché non mi va di sputtanare nessuno, ma di qualcuno ho visto la faccia su manifesti elettorali, non troppo tempo fa, e non con Forza Nuova. Di altri potrei fare i nomi perché rimasti coerenti, e di altri ancora perché consapevolmente “rinsaviti” (uso le virgolette per rendere chiaro che cerco di essere oggettivo quanto più possibile, e per rendere manifesto che sto esprimendo il mio punto di vista, valido quanto tanti altri).

Quando ho deciso di non essere più fascista, non ho scelto di essere comunista. Avevo, sì, amici comunisti militanti, che comunque rispettavo, ma ero troppo democratico per condividerne appieno le posizioni: troppo estreme per me, educato ad una borghesia intellettuale pervicace anche se non troppo partecipata. All’epoca mi limitai ad abbracciare una visione progressista, in linea con il crollo delle ideologie dell’epoca – si parla dei primi anni novanta – con una certa simpatia per le Socialdemocrazie, che al tempo avevano cominciato a godere di buona stampa anche a sinistra dopo anni di ostracismo comunista. Al Mamiani, dove ho fatto il liceo, non mi sono mai intruppato con gruppi organizzati; né ho avuto grandi frequentazioni con Figicciotti (Poliziotti) o con anarcoidi antisistema. Diciamo che mi trovavo piuttosto bene con quelle persone che avevano una visione artistoide, dissacratoria dei preconcetti, ma con un impianto idealistico di natura egalitaria. Poi qualche rissetta l’ho fatta, ma è storia diversa.

Io, per farla breve, mi trovavo bene con i cazzoni come me. Si stava bene, in quegli anni, perché non ci si sentiva mai soli. I pischelli tendono a fare gruppo, e quindi c’era dello spontaneismo che riempiva la vita sociale. Quando c’era autogestione o occupazione, per esempio, io facevo le classi di storia del jazz (disertate dai più), partite a pallone, musica e canne. Ma i collettivi li disertavo. Ci fu un mio compagno di classe che in uno di questi disse più o meno: “Mi sono rotto le palle, qui parlano sempre le solite zecche!”

Condivisi tanto che da lì non ci andai più.

I fascisti all’epoca avevano cominciato ad uscire dalle fogne. Da noi ce n’era uno, non ricordo il nome, che rappresentava Meridiano Zero. Ecco, il mio confuso antifascismo dell’epoca si limitò a storpiarne il nome in “Merdiano Zoro”. Il fatto era che non lo ritenevo una minaccia. Mi faceva pena. Solo dopo, a maturità acquisita, mi resi conto che quello che vedevo non era la morte dei residuati del Ventennio, ma la nascita di una consapevolezza nuova, quella cioè di poter uscire dalle fogne per reimporsi nella società che andava “baumantianamente” a liquefarsi. E che Dio o chi ne fa le veci mi perdoni ‘sta Fusarata.

Mano a mano che mi facevo adulto (anagraficamente), osservavo le parabole di chi mi circondava, oltre che la mia. Una generazione incredibilmente fuori fuoco, educata alla pace e precipitata in una guerra non convenzionale mai dichiarata. Pressati da un lato da vecchi maledetti che ci hanno consegnato la Bad Company del mondo che avevano spolpato, tenendo per sé e per la propria discendenza quanto di buono avevano “democraticamente” accumulato, e dall’altro da technopischelli senza pietà, nati già formati al conflitto e privi di quelli scrupoli “giuridici” che noi eravamo stati educati a rispettare.

Ad ogni modo, ognuno di noi è riuscito a farsi la propria vita: chi non aveva rendite di posizione, ha usato l’arma primaria del Capitale per poter vivere serenamente: l’oblìo. Alla fine, vivere nella società occidentale ha i suoi vantaggi: se hai un’istruzione e non hai delle pretese eccessive, puoi campare dignitosamente. Certo, personalmente ho dovuto emigrare. D’accordo, non ho fatto figli. OK, non ho saputo tenermi nessuna donna di quelle che ho amato. Ma ho la musica, e quella non me la leva nessuno. È un buon deal, ci si può stare.

D’accordo, parlo per me. Qualcuno si è realizzato maggiormente, altri si sono tolti la vita (e ora che li sto contando, un piccolo-grande brivido mi corre giù per la schiena). Altri ancora sono diventati tossici, ma la nostra è una società amica dei tossici, quindi il problema è relativo.

Solo che, come detto qualche riga fa, si diventava adulti.

E quando si invecchia, lo spontaneismo sbiadisce, fino a sparire. Rimangono solo le strutture della cara, vecchia società solida. Quindi ha cominciato a ricicciare l’importanza del Partito. Della corporazione. Dell’associazionismo tra il Rotary e la Massoneria. Insomma, tutto quello che noi, generazione di Avanzi e Tunnel ci si era affrettati a dichiarare archeologia.

Meschini noi.

Meschina una generazione di illusi, cresciuta nel mito dell’antieroe progressista (Dylan Dog) e dell’orgoglio post-ideologico. Nel mito di un cantante che prometteva di cambiare il mondo della musica e invece si è ammazzato, più lucido di tanti di noi. Ospiti di un mondo in cui accadeva tutto mentre sembrava non accadere niente, fatto di Raves, acidi e pasticche, di letture vecchie e nuove, di tanta musica e di un’acculturazione che invece di liberarci ci rendeva sempre più consapevoli dell’ineluttabilità della nostra schiavitù.

Meschini noi, che abbiamo cercato sollievo nel liquido amniotico del nostro privato, e che ci siamo distaccati prima dai nostri sodali, poi da noi stessi. Meschini noi, che abbiamo creduto nella rivoluzione digitale, che tra Richard Stallman e Bill Gates tifavamo per il primo. Meschini noi, che abbiamo creduto nella pace in Israele, e poi abbiamo saputo dell’assassinio di Rabin mentre pomiciavamo con una sconosciuta alla Fintech. Noi, quei meschini che mentre esploravano i meandri di un universo nuovo, sognando una frontiera di uguaglianza, hanno concorso alla nascita del legaccio sociale più efficace della storia umana conosciuta.

Sono passati tanti anni. Lavoro con gente che negli anni di cui sto parlando non era neanche nata. Oggi, se parlo di “autocoscienza”, provoco la lacrimuccia di qualche vecchio di cui sopra (che ieri ostentava il “potere giovane”, oggi il “potere vecchio” – in buona sostanza un Caporale di Decurtisiana memoria) in un qualche vernissage romano o milanese. Perché qui, tra le macerie fumanti del baby boom, pochi sanno davvero chi sono. Tra l’onanismo di massa, la postverità, gli sfogatoi virtuali e Berlusconi che promette 1000€ di pensione minima, è difficile non essere quantomeno bipolari.

Già, quelli che hanno coscienza di sé sono davvero pochi. E chi sono? Ah, già. Il titolo di questo post era “perché non mi piacciono i fascisti”.

Non amo i fascisti. L’arroganza non mi dispiace. Ma mi piace quella intellettuale. Credo che in una società evoluta sia l’arguzia, non la brutale violenza, a dover marcare le differenze. Credo che il sopracciglio alzato di fronte a chi sbaglia un congiuntivo sia un dovere morale di chi ha a cuore l’evoluzione umana. Credo che, se si vuole continuare a progredire, si debba dare più importanza a chi progetta un ponte piuttosto che al vincitore di un incontro di Muhai Thai. Non ho studiato una vita per obbedire a un imbecille, ma per cercare di farlo progredire. Che abbiamo scoperto a fare il DNA, se poi comanda chi dice che i vaccini sono frutto di un disegno oscuro della Spectre, di Soros, dei DemoPlutoGiudaici o dello stracazzo che se li frega?

Non amo i fascisti perché chi tra di loro non è stupido è furbo. E io odio i furbi. Io un fascista intelligente non l’ho mai conosciuto, perché è la natura delle cose ad essere antifascista.

Io non amo chi vuole imporre agli altri come e cosa pensare, perché è impossibile. Il fascismo è solo l’ipocrisia al potere: tutti fanno finta che funzioni, ma non dura a lungo.

Non amo i fascisti perché – sì – mi fanno paura. Non per me, ma per i miei nipoti. A me possono anche ammazzare, non ho nulla da perdere, e tutto sommato mi sono talmente rintronato con tanti cartoni animati giapponesi da bambino che il morire con onore mi pare quasi un’opzione. Ho detto quasi.

Non amo i fascisti perché dicono un sacco di cazzate e – oggi come ieri e l’altroieri – sono solo il braccio armato di un potere che ne sfrutta le abilità militari. Oggi il potere è la disinformazione, e questi sono campioni di questa disciplina:

Volete società endogamiche? Preparatevi a una recrudescenza di malattie genetiche, perché la forza di una specie deriva dal suo cambiamento, e il suo cambiamento è dato dalla mescolanza. Parlate di una cultura Italiana? Invenzione del Risorgimento, roba di duecento anni fa (scarsi). Parlate di una cultura Europea? Qui gli anni diventano poche decine. La storia ve la potete raccontare come meglio credete, ma non è che se raccontate mille volte la stessa cazzata quella cambia natura: sempre cazzata rimane, indipendentemente da quanti ci credono. È come la legge di gravità. Non è democratica, non la cambi per decreto.

Non amo i fascisti perché sono razzisti, e a me i razzisti mi stanno sul cazzo, per ragioni ovvie.

Eppure la prossima vittoria è loro. Perché in Occidente hanno la supremazia militare, al momento. Le sinistre… Ecco, niente da aggiungere: Le sinistre: ognuno di noi, mentre s’indigna davanti a facebook è “una sinistra”: e ‘ndò cazzo annàmo? Noi siamo un campo di grano davanti alla trebbia, i fasci sono – appunto – “fasci”: belli raggruppati, legati stretti da una disciplina e da una sciagurata visione comune. Loro pattugliano il territorio, noi ci chiudiamo in casa a farci le pippe davanti alle acrobazie retoriche di Fratoianni (e a Mia Khalifa, perché no). Loro, invece, ci danno i volantini, e noi li leggiamo, per cercare pateticamente di vendere la nostra paura come fosse un tentativo di comprensione dell’alterità.

Quindi la nostra è una battaglia persa. Tutto sommato ci sta: si chiama “alternanza”, ma quella vera, quella squisitamente politica, non la farsa che ha portato più della metà degli italiani a non avere più la voglia di votare. Forse è necessario, non lo so. Ma mi rode il culo, perché mi sento ostaggio di un egoismo diffuso. Perché certe volte mi sembra di essere il solo a cogliere l’enormità di quello che sta accadendo.

Ecco perché, da ragazzino, ho scelto di non essere più fascista. Perché evidentemente io devo stare dalla parte dei perdenti. D’altronde ho sempre avuto un’attrazione morbosa per i lavori di merda.

 

EDIT:

 

Mi è venuta in mente una cosa che mi ha fatto tornare il sorriso. È vero, la prossima battaglia sarà la loro. E quella dopo?

Sarà degli italiani davvero nuovi, quelli futuri, figli di una traversata che li ha resi davvero forti; che si sono confrontati con la morte, non con sparring partner esaltati nelle palestre di periferia; che hanno conosciuto la lotta per la sopravvivenza, non le spedizioni nei ginnasi. Quelli che si riconoscono con un’occhiata, quando s’incrociano per strada, e non perché sono nati nello stesso buco di culo di posto, ma perché nei loro occhi balèna il ricordo dell’orrore che fu. Saranno gli italiani di domani, scuri e motivati, che prenderanno possesso con la forza di ciò che avrebbero solo voluto condividere con noi, che gliel’abbiamo negato: quel “benessere” privato,  fatto di TV a 4K e di macchine comprate a rate. Chissà se – almeno loro – si renderanno conto di ficcare la testa in uno scorsoio.

E la cosa più surreale è che saranno proprio questi fasci (o i loro figli) a creare un’evitabilissima “sostituzione” (parola tanto in voga tra di loro). Saranno stati loro a mettere sul piatto quest’unica alternativa. E perderanno, malamente.

Chapeau.