-“Ma si, vieni, che è una bella giornata… Che ci metti, con la moto?”

Niente, che ci metto…. Attacco il telefono con la testa già dentro l’armadio. Si, è un viaggetto non troppo lungo, ma sono comunque le quattro del pomeriggio, e Matelica dista più di duecento chilometri da Roma. Il che significa minimo due ore di viaggio, quindi c’è da coprirsi bene, visto che dovrò scollinare la dorsale appenninica il 26 dicembre senza sole.

Mentre mi vesto (cerco di essere molto previdente) faccio l’elenco delle cose da portare: Una paio di maglioni sopra le due magliette e sotto il giubotto da moto; i pantavento e i parascarpe da mettere sotto i pantaloni di lana; le scarpe converse un po’ alte; una sciarpa annodata sui polmoni; un cappello di lana (non si sa mai) e poi il mio minizaino con dentro un paio di mutande di ricambio, dei calzini, il cofanetto di supergulp, una bussola, un contachilometri per carte geografiche e lo spazzolino. Mi scordo la cartina geografica. Saluto tutti casa e me ne esco, alle 16:00 in punto, con Garuda che splende sotto il sole obliquo di una giornata di tramontana dicembrina.

Il motore va che è un piacere. Io sono bello imbacuccato, e ho in testa l’itinerario: Casa mia – Fiano, A1 fino ad Orte, poi Orte-Terni, Terni-Spoleto, Spoleto-Foligno, Foligno-Fabriano-Matelica. Ragiono a tappe, questa è la strada che Tanja ha scolpito nel marmo delle mie convinzioni. Il sole tramonta a Terni, proprio in concomitanza dei miei lamps agli unici motociclisti che vedrò per due giorni: un gruppo di BMWisti, probabilmente di ritorno da una scampagnata. Niente a che vedere con quello che sto facendo io, in solitaria. Nella conca continentale di una delle più brutte città d’Italia, proprio nel breve periodo di crepuscolo che saluta il sole già debole a mezzogiorno, mi comincio a chiedere cos’ho fatto, mentre alle 17:30 la Flaminia disegna tornanti che riesco a vedere all’ultimo momento, a causa della mia leggendaria vista notturna. Garuda mi protegge dal vento sferzante, ma può fare poco contro l’incredibile inconsistenza dei miei guanti, che sono – si – molto protettivi contro eventuali urti alle mani, ma clamorosamente freddi. E meno male che ho il paramani, sul Transalpone. Effettuo una prima sosta benzina-Pipì-Bevandacalda a Spoleto: il barista mi guarda con compassione, forse perché nota la mia incapacità a chiudere le mani intirizzite attorno alla tazza di thé. Rimango nel Bar per una ventina di minuti, giusto il tempo di portare la mia temperatura corporea interna dai 32 gradi ai 36 e mezzo. Telefonata con Tanja, su cui riverso il freddo interiore dovuto ad un’esperienza che diventerà meravigliosa solo quando entrerò in un casale di montagna con tutte le stufe a legna accese. Ma quello verrà solo dopo molti chilometri: arrivato a Foligno, infatti, noto che sui cartelli della superstrada è segnalato solo Fano, di Fabriano non c’è traccia. Comunque non mi piace: Fano mi pare troppo fuori strada, troppo a nord; ho l’impressione di andare fuori strada, e non ho né mappa, né posto per fermarmi a meditare. Vedo una strada che porta a Macerata, e decido di inforcare quella.

Non è male, la SS 77: si inerpica in alto, scavando l’Appennino per vie centrali e tortuose, ed è adatta ad un viaggio motociclistico. Si, propria adatta. A maggio. Aprile, per stare proprio larghi. A Dicembre la storia è diversa: non passano nemmeno macchine, per l’intensità del freddo. Metto benzina in una pompa deserta, e aiuto a farla anche ad un signore con il quale m’intratterrò in una chiacchierata. Passerà dal lei al tu nonappena avrà saputo del mio sangue indiano:

-“Bel popolo, gli indiani! Te saluto, buon viaggio: Matelica sta lungo ‘sta strada, fa’ ‘n’antra ventina de chilometri, e ssi’ arivàto”

-“Te ringrazio, piacere d’avette conosciuto”: salgo su Garuda (ancora bello caldo) e riprendo la strada. Nemmeno tre chilometri, e vedo un bar. Mi fermo, devo farlo per via delle mani: sono davvero intirizzite, e il mantra che anima il mio viaggio-pellegrinaggio (da Tanja??) è: “Manopoleriscaldate, Manopoleriscaldate, Manopoleriscaldate….” Prendo un orzo in tazza grande, mentre in un’atmosfera alcolico-anzian-paesana come l’ho percepita solo nella Corchiano degli anni ottanta, una barista polacca mi informa sul mio stato. Il luogo in cui sto cercando rifugio dall’assideramento si chiama Serravalle in Chienti. Seguono indicazioni per raggiungere la meta: dopo un semaforo – a circa ottocentro metri, prendo a sinistra verso Castel Raimondo-Camerino; da Camerino (una decina di chilometri), Matelica a otto Km. Sono arrivato!

Oddìo, arrivato è una parola grossa: la neve ai lati della strada su curve buie invita alla prudenza, ma di ghiaccio significativamente impegnativo non ne ho mai trovato. E le Anakee magnano chilometri senza soluzione di continuità, mentre il motore ronfa a 3500 giri mentre passo file di macchine, accodate a camions come pulcini dietro una chioccia. Dopo il cartello che mi da il benvenuto a Matelica, mi fermo in un bar, dove telefono a Tanja per farmi venire a raccattare, prendo una cioccolata calda, e chiudo gli occhi, rilassandomi al suono delle palle del biliardo della sala attigua. Sono le 19:25, ci ho messo 3 ore e mezza (e non due), sono mezzo assiderato e mi aspetta un’ottima cena in un casale in montagna: sono davvero contento, sento di aver compiuto una mezza impresa, visto che ho preso la patente solo un mese fa. C’è chi dice che chi si fa le canne tende a mitizzare, ed a ingigantire le piccole cose per farle diventare grandi. Sarà. Però di moto, su quella strada e a quell’ora, c’era solo la mia.