Caro Etere,

Ho aspettato solo ora per vergare alcune riflessioni – senz’altro imprescindibili – sulla mia esperienza in Clubhouse.

Cinque giorni di produttività buttata, passata con le cuffiette e il telefono in mano. Sguardo perso nel vuoto. Voce quanto più impostata possibile. Voglia di gente sconosciuta con cui parlare.

Ora, sono sedici anni che ho SezioneAurea (il mio primo blog), dodici anni che sto su Twitter e tredici che sto (a diverso titolo) su Facebook. Sono un pioniere per ragioni anagrafiche, ma non sono mai diventato una Webstar.

Dice: “perché?”

Perché all’epoca non trovavo umano passare sul web la maggior parte del tempo, con un occhio sull’iPhone 3G e l’altro sul monitor catodico Trinitron a 19 pollici. Era un fatto posturale: non accettavo la forma che prendeva il mio corpo, una specie di grande “C” con un po’ di panza e gli occhiali. E poi, la mia senile natura “analogica”: l’astio verso il “segnale discreto”, quella parola che richiama un voto alle medie che è più che sufficiente ma meno che buono, e che mi fa vedere tutto ciò che ne origina come un’ombra nella caverna di Platone. La copia di una copia, disegnata con quel tratto parkinsoniano che mette subito in chiaro la totale assenza di verità nel segnale.

La parcellizzazione e ricomposizione di un messaggio, idea geniale – dicevano – un balzo nel futuro.

Già.

Un futuro che abdica al contesto, che svuota i significati, che utilizza le parole come vettori di polarizzazione e le nostre tracce sul web come briciole di Pollicino verso la deflagrazione di conflitti. Tu scrivi che sei contento perché c’è il sole? Io aspetto che piova per commentare il tuo ingenuo e improvvido tweet di allegria con un insulto, perché PIOVE.

E la fine di qualsiasi possibilità di confronto su un piano dei temi. È la nascita della contrapposizione come modello, della “politics pollaio”, del “E allora Tizio (o Caio)?”

E niente. Succede che in questo marasma semiotico qualcuno riscopre il “bello della diretta”. Il buon vecchio segnale analogico. La radio degli anni SettantaOttantaNovanta. La finestra temporale condivisa. Uno spazio delimitato e condiviso. Il potere alla parola, al suono, alla dialettica.

Per cinque giorni – mentre di fatto arriva un banchiere a commissariare un paese che non è stato in grado di esprimere una classe dirigente in grado di SPENDERE SOLDI, io mi distacco da radio, tv, siti informativi, social per parlare. Cristo, quant’e che non succedeva?

Al principio mi rendo conto che ho perso capacità dialettica. Il mio parlare risente dei troppi pensieri mai organizzato in una chiacchierata pubblica dal marzo 2019. Il mio dito indugia sulla “manina” da alzare per chiedere la parola. Sento ansia da prestazione, ma è un attimo. Il “non-luogo” (lo so, Augè intende altro, ma se non metto degli errori nel testo non catturo la tua attenzione, caro Etere) è popolato di gente mossa dalla mia stessa curiosità, gente che inoltre sembra aver frequentato con profitto la scuola dell’obbligo e ha un’idea precisa sulle “buon maniere”.

È un sogno.

Certo, tutti vedono le nubi all’orizzonte; orde di Troll organizzati tipo “Armata di Orchetti” che vengono ad inquinare questo luogo d’utopia. Tutti – e dico TUTTI – ragionano con il pattern “tutto questo è destinato a finire”, non rendendosi conto che la famosa “Onda” che ha travolto i social trasformandoli nella fogna che sono l’abbiamo creata NOI, che stavamo qui ai primordi. Siamo stati noi a incardinare ogni logica sul terreno della monetizzazione e della reputation. Ad organizzare l’idea stessa di successo sulla quantità invece che sulla qualità.

Ora c’è un mezzo la cui quantità è piuttosto definita nel tempo; un modello in cui la relazione è di nuovo consegnata alla condivisione, parola che nel contesto di Clubhouse riacquisisce il significato originario: “con-dividere” una frazione di tempo con altre persone, con al centro un concetto invece che un numero di likes.