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Buio. Pensieri volgari, aggressivi. La sfiga più nera. La mattina si era alzato alle undici, aveva fatto il caffè con gli occhi abbottonati e stava per sorbirselo sul balcone di casa. Bella giornata, una cazzo di bella giornata. Solo che aveva sentito una puzza strana nell’aria: non era ottimista. Non era un gran periodo. Andava a strappi; quando gli diceva male, per settimane una iella implacabile, spietata lo tartassava senza soluzione di continuità. E quella giornata puzzava, dal suo tardo inizio, maledettamente. Di plastica bruciata.
Capì, ma non fece in tempo.
La caffettiera che era rimasta vuota sul fuoco acceso, esplose mandando in mille pezzi la cappa di vetro smerigliato; in frantumi anche la tazzina che Martino aveva in mano, caduta per lo spavento rabbioso. Era successo un macello. La cucina era inondata di frammenti di vetro, finiti ovunque, anche nella roba da mangiare. Avrebbe dovuto pulire tutto, buttare un sacco di provviste e andare a fare la spesa un’altra volta. C’era stato l’altro ieri, e aveva speso quasi tutti i soldi.
– Oggi ho lezione con Filippo e dovrebbe pagarmi. Se non ha i soldi, sono fottuto – pensava tra sé e sé, mentre l’ascensore lo avvicinava al bar sotto casa. Dopo un risveglio di merda del genere, almeno un caffè decoroso, prima di quel maledetto calvario che l’aspettava. Pulire quel campo di battaglia. Poi sarebbe rimasto il problema della cappa. Così non poteva restare. Avrebbe dovuto levarla. Chissà quando.
– Cazzo!.
Il bar era chiuso. Martino bestemmiò e andò a prendere la macchina. Per un caffè avrebbe dovuto anche cercare parcheggio. A Garbatella è un inferno. Ribestemmiò. Aveva un talento naturale e compiaciuto per la bestemmia creativa. Arrivò all’utilitaria, che qualcuno aveva cosparso di briciole con l’intento di farla diventare un bersaglio per i piccioni. Sicuramente quel vecchio bastardo del colonnello Fascetti; un nome un programma. Aveva iniziato a rompere i coglioni a Martino per il volume della chitarra da quando aveva visto il Fender Twin ancora spento, il giorno del suo arrivo nell’appartamento; nemmeno gliel’aveva fatto accendere. Poi erano arrivati i dispetti di ogni genere. Martino non era mai riuscito a coglierlo in flagrante, ma sapeva che era lui. E Fascetti sapeva che lui sapeva. Si odiavano in maniera ultimativa.
Nel frattempo, la macchina faceva schifo. Pensò a lungo se prenderla; c’era di che vergognarsi ad andare in giro con la macchina in quelle condizioni! Ma non aveva scelta: l’unica alternativa era non prendere il caffè: impossibile. Sperava di non incontrare nessuno; al primo semaforo pedonale, una ragazza attraversò la strada, gettando un’occhiata di ribrezzo. Era Giuliana, l’amore inconfessato del liceo. Guardò Martino e lo riconobbe. Ne era certo. Il viso della ragazza assunse uno strano atteggiamento, tra il meditabondo, il nostalgico e la soddisfazione dello scampato pericolo. Lo stava giudicando. In modo affrettato, magari, ma severamente. Lui si sentiva una merda. Non avrebbe dovuto prendere la macchina, adesso lo sapeva. Arrivato al bar trangugiò quel maledetto caffè, si arrotolò una sigaretta e uscì mentre il cellulare squillava. Era Filippo, il tipo delle lezioni: sarebbe venuto e gli avrebbe portato i soldi: qualcosa cominciava ad andare per il verso giusto, a Dio piacendo.
Martino si barcamenava in quella selva di pensieri, riuscendo a metterli in ordine, anzi, in fila, come soldatini. Era bravissimo in questo, così come era bravo a gestire le sue disordinate finanze: forse era soprattutto per quello che riuscìa fare della chitarra un mestiere: gestiva la vita senza grandi patemi economici, nonostante le entrate altalenanti. Questo lo metteva su un piano più alto rispetto a tanta altra gente, che alla fine doveva arrendersi, sacrificando il sogno infantile di una vita fatta di musica sull’altare di un lavoro sicuro. Diplomato in chitarra classica, sì, ma anche un bravissimo pianista-tastierista; lavorava più in questa veste, mentre con la chitarra aveva un giro di scuole di musica e di allievi privati che lo impegnavano nei pomeriggi.