Sì, sono un dylandoghiano della prima ora. Non primissima, la prima storia è stata “Memorie dell’Invisibile” (hai detto un prospero), ed è cominciata da lì.
Tra due giorni comincia la “fase 2”, con la storia a colori disegnata da Mari e sceneggiata da Rrobe che si chiama “Dallo Spazio Profondo”, che non ho letto in anteprima (sebbene avrei potuto, ma poi avrei dovuto lavorare recensendola, e io voglio sucarmi la storia senza pensieri, come Ciro l’Immortale).

E Bloch che va in pensione, e il nuovo cattivo, e la poliziotta musulmana, e Groucho col palmare; tutte anticipazioni che sa chiunque legga i fumetti con un minimo di continuità e abbia un profilo Facebook che aggiorna un paio di volte a settimana. Ma non è di questo che voglio parlare. Vorrei essere un pochino più creativo. Di tutte le cose che ho sentito – alcune geniali, tipo il troll che si incazza per la presenza di una musulmana nelle storie – me ne manca una. Non so se per distrazione mia, oppure perché è un pensiero talmente delirante che nessuno l’ha formalizzato: l’identità tra DYD e gli anni novanta. Vado a esporre.

La forza del DYD di Sclavi poggiava su alcuni pilastri. Il primo era la scrittura – innovativa – delle sceneggiature, improntata da un lato alla brillantezza dei dialoghi, dall’altro alle atmosfere gotiche, prima ancora che splatter. Il secondo pilastro era il citazionismo aperto; omaggi più o meno occulti a film, libri, artisti e quant’altro che rendevano ogni numero di DYD un’esperienza al limite del multimediale (*estremamente* ante litteram). Il terzo pilastro era la dimensione spaziotemporale dell’azione: sì, vabbeh, Londra. Sì, okkei, la contemporaneità. Però Dylan non invecchia come Martin Mystère. Non si tiene al passo dei tempi con la tecnologia. La Londra di Dylan Dog è un meta-luogo, uno spazio dell’immaginazione. Il quarto pilastro (e ultimo – almeno secondo quest’analisi alla matriciana) è la chiave di lettura dell’Antieroe progressista. Niente di nuovo in Bonelli, visto che l’Editore aveva aperto la strada col suo Mister No, ma è con Tiziano/Dylan e il suo “i mostri siamo noi” che questo modo di intendere la vita e la società spicca il volo. Insomma, quattro pilastri fondamentali, e non ce n’è uno che abbia un aggancio al fluire del tempo. È azzardato ipotizzare che la fortuna del fumetto  sia stata nella capacità che i primi numeri avevano di formare un enorme preservativo tra il lettore e gli accadimenti del reale?
Dylan Dog è nato nel 1986, ma incarna perfettamente l’estetica degli anni novanta, quelli del riflusso della politica di potenza; delle post-ideologie; del look personalistico dato dal rifiuto dell’omologazione. Dylan È gli anni novanta. Rifletteteci: ha una personalità e una connotazione professionale improntata al dubbio; lavora grazie al suo rifiuto dei dogmi (Rambo non avrebbe gradito). Convive con l’occulto grazie alla sua capacità di accettazione dell’ignoto. Allo stesso tempo è granitico nella sua autoaffermazione. Si veste sempre uguale; scopa come un riccio, ma si innamora ogni volta visceralmente; è vegetariano; è fobico; ha sempre trentacinque anni. E poi è un EX, come tutti coloro i quali sono cresciuti negli anni novanta. Ex alcolista. Ex investigatore. Ha un passato poco chiaro, che come quello dei Simpson è mutevole, grazie alla dimensione narrativa sfumata tra realtà e sogno.
Il nemico giurato che è il padre. L’amore della sua vita che è la madre. Insomma, un blob che funzionava perfettamente in una società che guardava al presente, avendo un passato da rinnegare e un futuro da immaginare.
Poi è successo che gli anni novanta hanno costruito il duemila, e l’hanno costruito male. È accaduto che nella guerra del Software tra Richard Stallman e Bill Gates noi si tifasse accanitamente per il primo, e invece ha vinto il secondo. È accaduto che Clinton ha fatto succhiare via dall’America ogni speranza di gestione democratica del mondo globalizzato. È successo che mentre ci accanivamo a Sensible Soccer, il neonato WTO facesse arricchire il cinque per cento del globo a scapito del restante novantacinque. È successo che è cambiato il mondo mentre noi ci ripigliavamo dalla notte prima. Siamo entrati in un orrendo futuro, pensando che il tempo non passasse.

Alla fine ci siamo svegliati all’interno di una società polarizzata che cerca nemici. Mentre noi vagheggiavamo stonati di un mondo più vicino e pacifico al rientro dai raves illegali, Integralisti ebrei ammazzavano Rabin, e in un mondo divenuto molto più stretto, ci siamo accorti che il tempo era passato, cazzo, se lo era. Due Torri di Babele sono venute giù, e più di un paese è stato precipitato all’età della pietra da bombardamenti a tappeto. E noi lì, schiacciati tra vecchi incazzati e pischelli spregiudicati, ma con l’appuntamento mensile in edicola con l’Indagatore dell’incubo che ci forniva lo schizzo necessario per andare avanti, quell’oasi di immobilismo che dava ossigeno alla nostra fantasia, alla nostra esigenza di “bozzolo”.

Finché, un giorno, all’ennesima storia demmèrda, ci siamo un po’ rotti i coglioni. Va bene l’immobilismo. Va bene la necessità di bozzoli. Però, a ‘na certa, anche basta. Molti hanno smesso di comprare Dylan Dog, magari piegando verso altri passatempi, oppure decidendo di crescere.
Quando accadde, qualche anno fa, non avrei saputo dire se l’improvvisa insofferenza fosse stata data dalla qualità delle storie che calava a picco, oppure se noi degli anni settanta, i classici giapponesi sull’isola alla fine della II Guerra Mondiale, non ci fossimo arresi al bisogno di nuovo, alla furia iconoclasta che vuole bruciare il vecchio (anzi, “rottamare”) per favorire il nuovo.

Infine, l’illuminazione. La visione del metafisico.

Recchioni è riuscito a fare quello che i nostri governanti cercano di fare da vent’anni: far ripartire qualcosa di bloccato.

Dylan Dog era invischiato in un immobilismo dettato dall’incapacità editoriale di confrontarsi con il rischio di mettere le mani sopra una ricetta vincente, che però vincente non lo era più da anni. Sclavi stanco. Bonelli morto. Crisi pluriennale dell’industria del fumetto a causa del potenziamento esponenziale dell’Entertainment videoludico. Linguaggi che si cambiano ogni venti minuti, a fronte di un mondo – quello delle nuvole parlanti – che ha (almeno in Italia) un codice narrativo piuttosto antico.
Di fronte a questa mole di problemi apparentemente irrisolvibili, ecco apparire – quasi lo vedo mentre si fa una passeggiata sul lago di Tiberiade – colui il quale porrà fine alla vecchia era, aprendone un’altra. Lascia perdere che nonostante l’aspetto Nazarenico sia un egoide incazzoso, un po’ montato. Quello che conta è che sembra l’uomo giusto al momento giusto.
I suoi fumetti hanno un linguaggio nuovo, è un fatto incontrovertibile. Vive attaccato alla rete, o con l’ultima console o con i suoi virali status sui social. È un maestro dello spoiling controllato, è riuscito a generare un interesse intorno a DYD che non si vedeva dai tempi di “Morgana” (n. 25 della serie regolare). Ha dato un’impronta sua a tutto: copertina, seconda di copertina, dialoghi. Ha dato a Dylan una spallata che l’ha scosso, facendo cadere un bel po’ di polvere e riattivandone alcune funzioni vitali congelate da tempo immemore.
Con buona pace dei detrattori, l’intervento di Rrobe ha dato a Dylan un bel po’ di vita in più. Perché se non sfrugugli, non generi interesse, senza interesse non c’è dibattito, e senza dibattito non c’è avventura editoriale.

In estrema sintesi, Recchioni ha avuto le palle di mettere in moto qualcosa che aveva conosciuto la sua fortuna grazie al suo immobilismo. Annusando l’aria ha realizzato che il cocktail vincente tra la poetica di Sclavi e una società predisposta al sogno aveva dato i suoi frutti, e che quindi non rimaneva altro che rovesciare il tavolo, raccattare le pedine più fighe e inventare con queste nuove regole per un nuovo gioco. Figo.

P.S: I Fumetti sono una cosa, la politica è un’altra. Recchioni è Recchioni, Renzi è Renzi. Pure se sono nati nello stesso anno: vorrà dire qualcosa? Mi verrebbe da dire “speriamo di sì”. Così potrei provare l’ebbrezza di essere crocifisso da un “Nazarenico”.