Theminenera è la notte un cazzo

Io ho un orologio che mi avverte quando sta per finire. È Easy dei Commodores, il gruppo di negri gelatinosi da cui è emersa la matrice di tutti i viscidi Afroamericani, Lionel Richie. Quando poi la canzone sale di un tono, vuol dire che la serata è quasi finita.

Oddìo, ancora ce n’è. Devo smontare questa fottuta batteria. Devo infilare ogni pezzo nelle rispettive custodie, poi devo caricare il tutto in macchina. Ora, spesso e volentieri, le ore di sonno che mi sono concesse sono nelle mani del DJ che segue la nostra esibizione. Sì, noi saremo pure l’attrazione principale, secondo i padroni di questo locale di bòri, ma è chiaro che questi coatti antichi che si dimenano in preda ai fumi delle metanfetamine annusando le cubiste vogliono solo una cassa dritta a 160, possibilmente sparata da un impianto con intenti criminali.

Beh, stasera butta male. Il panzone dietro la console lo conosco. No alcol. No taurina. No droghe. È un fottuto professionista, li terrà caldi fino alle quattro, il ché significa che siamo bloccati qui. Sono bloccato qui. Perché Carlo, Andrea e Massimiliano se so’ dati. Capirai! Un microfono e due custodie a tracolla, e hanno finito. Sono rimasto solo io, come al solito. Con l’incombenza di prendere il cachet, di caricarmi tutta la roba da solo, e con questa cassa maledetta che mi sta prendendo a badilate lo scroto.

Devo fare qualcosa

Accatasto la mia batteria dietro una specie di quinta del palco, dove è al sicuro da furti tossici e maltrattamenti alcolici, e scendo in pista, per riuscire a raggiungere l’uscita, che è un’impresa.

Non mi diverto in discoteca da quando avevo diciannove anni, quando c’avevo i capelli e non ‘sta panza, mi drogavo generosamente e quindi mi sarei divertito anche a un comizio della CIGL. Per me la discoteca non è altro che il lato peggiore di un lavoro di merda, che sventuratamente è l’unico che so fare. E anzi che ancora campo.

C’ho quasi cinquant’anni, e mi faccio troppe pippe e troppe canne per aver un appetito sessuale degno di nota; nei momenti di libertà, oltre all’ascolto di buona musica, mi piace il confronto dialettico. Ora, in un posto dove c’è musica di merda a volumi da codice penale, in cui non puoi parlare nemmeno urlando a voce piena direttamente nel canale auricolare di un eventualissimo interlocutore – quasi certamente decerebrato – se non hai la fantasia di scopare, che fai?

Guadagno l’uscita stringendo mani e dando cenni di OK, distratti, senza guardarmi attorno, rispondendo meccanicamente a chi mi fa i complimenti, e non distinguo i maschi dalle femmine. Dovrei? Sono ancora sudato come un kebab, lo strumento è fisico, impegnativo, e io tendo a secernere come una lumaca nuda. Prendo tutto il freddo di ‘sto novembre grigio come le mie settimane e mi accendo il cannone prefabbricato, sperando in uno stordimento che mi astragga da questa bolgia.

Allora la vedo

Mi guarda, golosa. Peserà ottanta chili, è tonda e ridente, pare la Luna. Aspiro qualche boccata facendo il vago, aspettando il torpore dell’hashish. Rido sotto i baffi, perché già al liceo ero noto per attirare i cosiddetti ròiti. Ora, a me le ciccione mi ripugnano. Credo che sia stata la dipendenza dalla pornografia a deformare il mio senso estetico; non contemplo – mai contemplato – nulla al di sopra della taglia 42. Oddìo, Agata aveva una 44, ma era amore vero. Infatti è finita male e presto. Per il resto, da quando ho acquisito la maturità sessuale, ho preso in considerazione solo vitini di vespa e bei culi. Le tette grosse mi mettono ansia, credo sia per via di una figura materna dominante. Mia madre voleva facessi l’avvocato. E faccio il batterista. Non c’è niente che mi metta al riparo dai suoi anatemi, le rare volte che torno al paese per andarla a trovare. Mio padre – che è sempre stato il più furbo della famiglia – vive in Romania dagli anni novanta, con una che ha vent’anni meno di lui. Fa il trasportatore, il camion è suo, e se la passa piuttosto bene, credo. Non lo vedo dal primo infarto. Gli altri due me li sono risparmiati, tanto ho capito come va a finire. Come diceva il Bardo? Molto Rumore per Nulla? Ecco.

Lo vedi, le canne? Non mi fanno bene. Se l’ansioso vive nel futuro e il depresso nel passato, le canne a me deprimono. Penso sempre al passato. Oddìo, forse mi ansiano anche un po’. Però una cosa è certa: già vivere nel presente non è il mio forte, le canne mi dissiociano. Infatti dovrei smettere. Domani. Ora, che sto bello tronfio, voglio farmi due risate. Tanto ne avrò per almeno un paio d’ore. Dov’è la buzzicona? Mi giro e non la trovo. Faccio spallucce, e mi metto a giocherellare con l’iPhone. Vado su Facebook, e trovo le foto della serata di quei due sciamannati dei miei colleghi, tutte con didascalie e tags del sottoscritto, assieme a prese per il culo. Rispondo, salvo qualche foto, rispondo ai commenti con il salace umorismo del prigioniero politico. Finisco la canna, e ne getto il mozzicone. Mi gira la testa. Bene.

Prendo un respiro profondo, e mi siedo sul cofano di un’utilitaria. Chiudo il cellulare e lo rimetto in tasca, sapendo di esporre i miei spermatozoi ad una specie di radioterapia non necessaria. Mi guardo dietro, e la rivedo. Mica è brutta. Ha un bel sorriso, bellissimi denti e un ovale del viso molto particolare. Avrà i fianchi di una damigiana, ma quando le sorrido non lo faccio per compassione, né per presa in giro. Lei ricambia, e mi viene incontro. Scosto il culo dal cofano dell’auto, e mi metto in posizione eretta. È alta quanto me, un’altra cosa che mi urta i nervi. Sorrido con falsa modestia ai suoi complimenti. Tra l’altro ho suonato di merda, a volte capita, pure se raramente qualche ascoltatore non addetto ai lavori se ne accorge. Mi guarda con una profondità che mi mette in imbarazzo. Mi sento un piatto di lasagne guardato da un affamato. Sostengo il suo sguardo a fatica, e solo perché sono bene allenato a farlo. Quando vai a proporre la tua musica ai gestori di locali, se devii lo sguardo sei finito. Almeno cinquanta euro in meno. Non c’è da scherzare.

Ha una bellissima voce. Matura, ricca di armonici, con una venatura di dialetto pontino che la rende eccitante. Si chiama Marcella. Un nome di merda, ma tant’è.

Sì, le è piaciuto il concerto.

No, non è di Roma, ma ci vive da quindici anni.

Sì, lavora, è segretaria in una ditta di articoli per l’edilizia, sì, uno smorzo.

No, non è in compagnia.

La conversazione è talmente di maniera che dopo un po’ mi chiedo perché stia continuando. Ad un tratto, si propone di aiutarmi a caricare gli strumenti.

Sì, è stata con un batterista.

Diversi batteristi.

Molti batteristi.

Ah, quanto le piacciono i batteristi.

Vive proprio sopra quella discoteca infernale. No, non ha problemi di volume, non si sente niente. Magari qualche ubriaco che spacca bottiglie, ma ci si abitua.

Perché no? Mancheranno almeno due ore alla resa al sonno dei coatti. Almeno un paio di grammi di cocaina alla fase di carico della macchina. Due chiacchiere in una casa non mi possono fare altro che bene. Grazie.

Guardo quel culone farsi largo nella calca, portando le custodie dei tom, e aprendomi la strada per portare il morto, cioè la pesantissima borsa con dentro le meccaniche: aste, pedali, ferraglia in genere. Gran parte del lavoro. Fantastico, fantastica.

***

Cristo, pare una ventosa. Come ho fatto a scansare tutto questo per una vita intera? Quanta gioia, quanta abbondanza, quanta vita. E quanto amore! Mai provata una sensazione così. È difficile dare una logica alle immagini che si affastellano nella mia mente. Passano dalle vecchie pubblicità di Ave Ninchi del pollo AIA, a Trudy, la fidanzata di Gambadilegno, con quel culone enorme su uno scooter così piccolo. Ha l’intero corpo che ride, vibra e abbraccia. Non c’è centimetro della pelle che non sia morbido, elastico, confortevole. Gode della gioia del contatto, e io con lei.

Ho fatto della perdita di tempo un’arte. “Vuoi perdere tempo? Chiedimi come”. Ma se c’è qualcosa che non potrò mai perdonarmi, sarà di avere avuto un preconcetto così idiota, così borghese, così mediocremente televisivo. Credo di essermi innamorato, ma mi vergogno. Lei è appoggiata al mio petto. Dorme. E io non vorrei essere in altro posto che lì, con lei. E non so nemmeno come si chiama. Anzi, sì, Marcella. Ma che nome è? Non ho voglia di andarmene, sto benissimo. Penso di cambiare vita. Basta canne. Basta tutto. Per sempre. Socchiudo gli occhi, e mi lascio andare al torpore del dopo orgasmo.