La notizia della morte di Lucio Dalla è una tortorata tra capo e collo. Mi ha gettato in una tristezza nera, davvero come se fosse morto un amico. Ho avuto la fortuna di incrociarlo una volta a via Asiago, mentre io suonavo con Amalia Gré, e lui era con Gabrièl Zagni, che me lo presentò. E’ sempre bello quando vedi in carne e ossa l’autore di brani che conosci a memoria da quando hai 4 anni. Feci in tempo a dirgli che avevo interpretato una sua canzone (per me poterglielo dire fu una grande soddisfazione), e a farmi due risate alle sue spalle per i suoi capelli finti. Poi ci separammo, e da quell’incontro fugace mi è rimasta la convinzione che – anche qualora fossimo stati amici fraterni – non sarebbe andata poi tanto diversamente: una specie di “intesa non verbale”, che tra tanti amici è la via di comunicazione migliore.

In realtà, la tortorata di cui sopra lascia il tempo che trova. Perché il Dalla che ha accompagnato la mia infanzia, la mia adolescenza e parte della mia giovinezza (le ultime cose che ha fatto le ho trovate un po’ distanti, oppure sono io che ho sverginato l’orecchio, non lo so) è vivo negli LP che ha partorito, specialmente quelli a cavallo tra i 70′ e gli 80′, che sono i miei preferiti e quelli che -vuoi per esposizione infantile, vuoi per una mia personale sensibilità o gusti – mi sono rimasti più dentro. Meri Luìs e l’Ultima Luna, più di Caruso o Attenti al Lupo, per intenderci.

il fatto è  che il ora che è morto, io mi sento  ancora più vecchio. Un altro pezzo di vita che se n’è andato, un altro maestro che lascia un vuoto che sarà pure riempito da qualcun altro,  che però ai miei occhi da quarantenne non ha l’autorità e la presenza necessaria per poterne prendere il posto nelle mie preferenze.

Insomma, la vita continua, ma noi ci perdiamo i pezzi.

Sciào, Luscio, e salutami quel brutto uccello che ti aspetta lassù.