Due parole sull’identità. Che – dice – che ce vò?

L’identità non coincide con l’autocoscienza, in quanto essa spiega e comprende l’identità soggettiva ma non quella oggettiva (o interna ed esterna, stando ad una delle tante schematizzazioni di Amartya Sen

[1]. Dal pensiero presocratico di Empedocle (chi è io?), passando per il Delfico ΓΝΩΘΙΣΑΥΤΟΝ e per le pieghe del pensiero Socratico, anche l’antichità è costellata di domande difficili sulla natura di ciò che siamo. Aristotele, quello ridotto a macchietta dai Cristiani con l’Ipse Dixit, si prese la briga di ridurre l’identità a principio logico (A=A ecc.), svincolandosi da tutte quelle implicazioni umane che definiscono il moderno concetto di identità, sviluppato dalle scienze sociali, cui arriverò. Ciò nonostante, la sua Politica è un testo seminale per la comprensione dell’evoluzione dell’autocoscienza nella storia del pensiero.

Per arrivare al concetto di Identità comodamente, è utile passare per quello di individuo. Lo sviluppo individuale, infatti, è legato allo sviluppo della società da fili che cambiano nel corso della storia del pensiero filosofico. Cioè a dire che la definizione del concetto di Identità va considerato come risultante del rapporto tra la società nel suo insieme e i suoi componenti; è apparso subito chiaro che non si può definire la società come semplice “somma algebrica” degli individui che la compongono; in realtà, lo studio delle dinamiche identitarie ha come suo baricentro il mutevole rapporto tra l’uno e la collettività. Come detto, per il già citato Aristotele,  l’uomo è Animale Politico, e in quanto tale, concepisce la propria individualità solo proiettata in uno schema sociale; coloro i quali non sono inseriti nei meccanismi della società sono chiamati “Idiotes”, cioè “Privati” in antinomia con “Pubblici”.

Il legame tra la parola idiota e privato lo tengo caro, così come probabilmente lo terranno caro i tre lettori di queste pagine.

Aristotele fa ovviamente acqua da tutte le parti; ovviamente poiché l’approccio idealistico e sistemico in merito al groviglio dell’essenza umano si perde fatalmente qualcosa per strada; la conoscenza umana è un processo, come l’insegnamento, e non  esiste alcuna teoria definitiva. Solo l’analisi fattuale e sperimentale genera qualche brandello di verità, anche se incompleto. Come dire, un approccio teoretico è fondamentale solo se scevro da presunzione di universalità, e se aperto ad accogliere dati raccolti durante un’analisi di processo.  Nel caso di Aristotele, il limite è fattuale: egli sottostima – quando proprio non rimuove – il ruolo dello sguardo non organico sulla società, assolutamente necessario nell’ottica di “bilancini” sociali; mi riferisco alla scuola Cinica di Diogene, per esempio, ma anche ai Contrari e ai buffoni in generale, il cui ruolo (definitivamente delineatosi durante l’alto medioevo) è quello di offrire una prospettiva altra, a volte comica e insensata, altre volte “laterale”.  Si pensi al caso indiano, in cui, nel ciclo della vita sociale, è pensato e socialmente definito il ruolo del vecchio rinunciante, il quale, dopo aver atteso i suoi compiti (lavoro, famiglia, figli), si ritira a vivere di elemosine nella foresta, uscendo dalla società e contemporaneamente guadagnando il diritto di essere ascoltato come saggio dispensatore di consigli.

Tornando al pensiero classico, esso ruota attorno al concetto di individualità come unicità, ed è con la modernità che l’individuo comincia a spostare il proprio asse sul complesso di relazioni che ha con la società in cui è inscritto; con l’avanzare della storia umana, l’autocoscienza si intreccia con il Cogito cartesiano, l’elevazione del dubbio a senso supremo di consapevolezza dell’essere. Con il pensiero di Locke, Hume e Rousseau (pare ‘na puntata de Lost) comincia la deriva giusnaturalista e contrattualistica, in cui l’uomo, centro di un sistema con sé alla base, stabilizza il dubbio scientifico, che diventa architrave del pensiero umano. L’uomo si è riconosciuto. Archetipicamente, Adamo ed Eva che si vanno a nascondere in quanto cibatisi del frutto della conoscenza rendono bene l’idea della relazione tra autocoscienza e identità. La coppia primigenia deve rifuggire lo sguardo dell’altro, in quanto improvvisamente conscia della propria nudità. Ma questa condizione è un problema nel momento della percezione da parte di terze persone, in quanto è il loro sguardo (dei terzi) che determina la condizione di pudore, e non un disagio con il proprio corpo. Nasciamo nudi, e ci vestiamo per nascondere e preservare la nostra più intima specificità dalle forze dell’omologazione sociale. L’essere nudi è la verità oltre il velo, l’unicità dietro l’omologazione, la pelle dietro la divisa.

Poi arriva Hegel. Un rigurgito di teoretica. Una provvisoria deroga all’indagine umana in favore di ulteriori schematismi con velleità di onnicomprensione. Egli inserisce l’individuo nel processo storico, come elemento di espansione della ragione messa alla prova nei suoi concetti dal mondo esterno. L’individuo, in questa chiave, è visto come un limite da superare per raggiungere una piena evoluzione politica, intesa cioè come raggruppamento senziente di individualità e fulcro per lanciare la ragione al di là dei suoi limiti. In buona sostanza, Hegel cerca di limitare le pressioni individualistiche in ragione di una propensione Aristotelicamente politica. Tentativo nobile, ma in direzione ostinata e contraria al cammino umano. La società, ora orientata a meccaniche capitalistiche (sia in occidente che in oriente) tende ad un progressivo frazionamento: come afferma Roberto Esposito[2], c’è uno scontro di sistemi (niente a che vedere con quello “Scontro di Civiltà” profetizzato da Huntington alla vigilia dell’11/9)[3] tra l’Europa e gli stati Anglosassoni; la guerra ideologica tra democrazie e Totalirismi, secondo il filosofo napoletano, è di fatto uno scontro tra una politica basata sulla biologia (supremazia della razza, aggregazione politico-etologica contro il modello capitalistico, che vuole tutti gli uomini uguali di fronte alla società – e al denaro)  e un approccio politico votato al soddisfacimento dei desideri del singolo, come ultima realizzazione sociale: di fatto, la sostituzione di un diritto di cittadinanza con quello dell’accesso al consumo. È un percorso tortuoso, che ha nei suoi ostacoli gli snodi principali del suo compimento. Passa attraverso l’esistenzialismo, declinazione ultimativa del Cogito cartesiano in cui l’individuo, sciolto dai suoi legami con la società politica, si trova gettato nel vuoto pneumatico della propria fragilità. Prima Kierkegaard sottrae l’individuo alle forze dello Spirito Hegeliano (e quindi della storia), per donargli l’arbitrio nella creazione del proprio destino[4]; Nietzsche, con la volontà di potenza e il concetto di Oltreuomo[5], rivede i rapporti tra agenti storici e individuali, mentre Sartre, concentrandosi sull’aspetto della responsabilità e della fatuità della vita, legge l’umana esperienza individuale come isolamento (seppure, in una creolizzazione Marxista, egli pone l’intellettuale in una posizione di socialità)[6]. Il sorpasso dell’individualità sulla socialità può considerarsi compiuto da qui.

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L’identità parte come detto dall’interazione tra individui, come elemento soggettivo (autocoscienza) e oggettivo (coscienza dell’altrui identità); tutte le teorie identitarie, siano esse individuali, filosofiche o sociali (quelle scientifiche e algebriche non sono oggetto di queste righe) – eccezion fatta per il modello di Bauman e l’Appadurai di Modernità in Polvere[7], si basano su un schema binario, dovuto – ed è questa la strada che intendo percorrere – a due aspetti basilari. Il primo è la nascita ed evoluzione del modello Identità -> Alterità in un contesto politicamente ed economicamente spaccato in due fazioni (Capitalismo e Socialismo Reale); il secondo, ed è relativo a tempi più recenti, è la narrazione polarizzata che il grande capitale ha organizzato per i propri fini: un utilizzo di tecniche comunicative che attingono alla scrittura creativa e alla sceneggiatura; il ricorso all’attrito identitario come motore immobile. Ed ecco che la riproposizione del binomio Identità/Alterità sopravvive alla storia: sopravvive alle ideologie, ma anche alle spinte PostColoniali e antimperialiste che hanno caratterizzato l’affrancamento del Terzo Mondo dall’Occidente durante il processo di Decolonizzazione; ad oggi, persino la teoria letteraria pone l’accento sulle frizioni intercomunitarie ed Interidentitarie, e spiega, utilizzando questi stessi strumenti, anche sommovimenti importanti come l’inversione di polarità tra potere egemone e subalterni mediante l’appropriazione linguistica delle ex-colonie nei confronti della casa madre Britannica (in questo senso, l’introduzione di S. Rushdie a “The Vintage Book of Indian Writing” [8] è un esempio importante di analisi in questo senso, anche se spesso contestato, specialmente dagli esponenti più recenti della scena dei Cultural Studies, ad esempio Leela Gandhi[9], che gli imputa di tenere le letterature vernacolari non in debito conto).

Quindi, in accordo con tale visione binaria, l’identità diviene un punto di intersezione tra ciò che si è e ciò che appare di noi. Gli elementi costitutivi di un’identità sono molteplici, così come gli ambiti della conoscenza umana che cercano di definirla. Matematico, umanistico, filosofico, artistico, sociale, politico, geografico, etnografico, psicanalitico. Di fatto, più si è andati avanti e più le cose si sono andate complicando, proporzionalmente al proliferare delle componenti potenzialmente costitutive della personalità. Dalle teorie degli anni settanta di Psicologia sociale (Tajfel, Milgram) in cui grande importanza aveva il nuovo modello sperimentale applicato ai gruppi (esperimenti sostenuti da gruppi finanziari, curiosi di approfondire tecniche di controllo delle masse), si arriva quindi alla parcellizzazione del mondo seguita dalla conquistata egemonia del Turbocapitalismo e dalla capillare distribuzione di mezzi di informazione di massa, che per loro natura tendono a diveidere più che ad aggregare, in quanto pongono al loro centro il profitto, e non più l’Essere Umano.

E mano a mano che questa complicazione prende forma, il modello entra in crisi. Lo stesso sintagma Identità diventa vettore di significato negativo, in uno scenario multipolare caratterizzato da grande instabilità; diventa

[…] un dato convenzionale, espressione simbolica di una cultura, luogo virtuale e progettuale definito a partire da un insieme di paradigmi di base e di valori, prodotto della storia nella quale si inscrive, e come tale soggetto ad instabilitàe mutazioni nel tempo e nello spazio, nonché a possibili utilizzi strumentali e ideologici[10]

Oppure, assume lo stato di Liquidità[11], diviene transnazionale secondo Bauman, o diventa rappresentazione di una Comunità Immaginata secondo Benedict Anderson[12].

L’identità diviene concetto mobile; si appanna in quanto entrano in gioco, nella definizione della nostra autocoscienza, elementi lontani, frutto del restringimento dei confini e della globalizzazione del mercato. Il ruolo delle tecnologie è cruciale in questa fase, poiché influenza il nostro posizionamento nello spazio (di qualsiasi tipologia, fisico o virtuale) e nel tempo come mai era accaduto prima. Immaginate un Giapponese che dedica il proprio tempo libero ad un chitarrista afroamericano del secolo scorso. Trent’anni fa avrebbe potuto essere il soggetto di un film, oggi è una realtà pubblica, verificabile e interattiva:

https://www.youtube.com/watch?v=bgSar-ZHBt8

Internet funziona da volano a questo annullamento delle distanze identitarie, ma favorisce la costruzione di individualità molto più complesse di quanto non fosse mai successo prima; e sono esse che ora si relazionano, senza il bisogno dell’interfaccia storica dei gruppi sociali. Per questo assistiamo alla crisi della politica tradizionale: perché i sistemi di rappresentazione buoni per il novecento sono diventati assolutamente inefficaci nella società liquida. Per questo che esperimenti come quello di Grillo prendono piede; perché rispondono – non entriamo nel merito della qualità della risposta – ad un’esigenza largamente percepita, ma ancora in fase di elaborazione. Quella di riuscire a trovare un minimo comune multiplo sociale che permetta di organizzare ogni azione comunitaria a partire dalle istanze dei singoli, i quali, purtroppo, più passa il tempo, e più divengono vittime della loro unicità.

Irriducibili individualità, ostaggio della propria unica particolarità, in perenne ricerca di un gemello astrale che non esiste. Perché una cosa rimane vera, anche nell’epoca dell’informazione: le Identità Soggettiva e Oggettiva sono un sinolo, che perde di senso in assenza di un momento di incontro. Non può esistere un’identità senza un’alterità, pena l’assenza di negoziazione e dialogo. Ciò che è cambiato è il modo di costruzione dell’alterità. Siamo diventati troppo vicini, per cui è difficile costruire un modello come quello (in tempi non troppo lontani efficacissimo) descritto da Said[13]; di contro, però, il rischio di negare l’altrui specificità in cerca di una dialettica facile e a senso unico è dietro l’angolo, foraggiata dall’assuefazione ad una comunicazione unidirezionale (la televisione) e da una falsa interazione (le relazioni da Web 2.0).

Il rischio è creare una società che rifletta quello che ora sembra essere l’unico denominatore comune del nostro Villaggio Globale[14]: l’Alienazione.

 

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[1] Amartya Sen, The argumentative indian, Penguin, London 2005

[2] Roberto Esposito, Bìos, Einaudi, Torino 2004

[3] Samuel P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano 1996

[4] « In ogni campo e per ogni oggetto sono sempre le minoranze, i pochi, i rarissimi, i Singoli quelli che sanno: la Folla è ignorante. » (Søren Kierkegaard, Diario)

[5] Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Milano 2004

[6] Jean-Paul Sartre, L’existentialisme est un humanisme, Nagel, Paris 1946

[7] Arjun Appadurai, Modernity at large – cultural dimensions of globalization, University of Minnesota Press, Minneapolis 1996

[8] AA.VV., The vintage book of indian writing: 1947-97, Vintage, London 1997

[9] Leela Gandhi, Indo-anglian fiction: Writing india, elite aesthetics, and the rise of the ‘stephanian’ novel, Australian Humanities Review, La Trobe University 1997

[10] Francesco Remotti, Contro l’identità, Laterza, Roma-bari 1996 cit. in Carla Fratta, Identità, ne Silvia Albertazzi – Roberto Vecchi, Abbecedario postcoloniale, Quodlibet, Macerata 2001, pagg. 45 e segg.

[11] Zygmunt Bauman, Modernità liquida, Laterza, Bari-Roma 2011 e Zygmunt Bauman, Intervista sull’identità, Laterza, Roma-Bari 2009

[12] Benedict Anderson, Imagined community, Verso, London 1983

[13] Edward Said, Orientalism: Western conceptions of the orient, Penguin Book, New Delhi 1978

[14] Cito l’opera da cui è tratto il nome del Centro Sociale col fumo peggiore di Roma: Marshall McLuhan, Understanding media: The extensions of man, Gingko Press, Hamburg 2003