Non so perché, ma alla mente mi è riaffiorato un non so quale racconto autobiografico – mi pare fosse Oriana Fallaci, ma non ne sono certo – in cui si parlava delle ristrettezze passate da una famiglia durante la guerra. Memorie di difficoltà affrontate a schiena dritta, sempre condite con quel senso di incrollabilità tipico della borghesia intellettuale del XX secolo; parlo di quella consapevolezza mista a certezza che la vita avrebbe restituito loro il maltolto, una volta finita la follia della guerra (che notoriamente sovverte l’ordine razionale delle cose).
Parlo di un certo disprezzo della mediocrità, che in Italia è stata perfettamente paradigmata da quella buffonata che fu il Fascismo: il pressapochismo pecione e  della sua classe dirigente, e la vigliaccheria pigra della sua base di consenso. Un secolo fa, chi si elevava al di sopra di queste tendenze facilone aveva la certezza che prima o poi sarebbe arrivato il proprio turno. Oggi, chi si eleva al di sopra della follia che ci amministra, può ambire ad un telefono con cuffia per svendere il proprio tempo un tanto al quintale oppure ad una divisa con berrettino che puzza di fritto e salsa barbecue.
In India esiste ancora quella spocchia. Ben tutelata dal castismo (in un’accezione ad ampio spettro), la cazzimma dell’intellettuale, meglio se laico ed emigrato, c’è tutta. Ma non è come qui da noi – che pure con l’India abbiamo molti punti in comune, crescita zero a parte. Prendi la deontologia, per dire: in Italia l’intellettuale è diventato organico al sistema economico-politico negli anni ottanta,  e oggi, estinta o quasi la generazione che ha conosciuto la guerra, l’intellettuale italiano si barcamena tra terrazzi Gambardelliani, Talk Show televisivi, colonne di giornale e (almeno quelli dotati di una rimanenza di senso sociale) qualche apparizione nelle università. Gramsci è morto, Pasolini pure, c’è rimasto Veltroni. Per dire, appunto.
Ok, si dirà che anche questi hanno una loro feroce, spietata cazzimma. Vero. Ma il problema è che non stupiscono. Cominciano, e sai già dove andranno a parare. D’altronde, non decidono loro. Prima c’è l’Auditel. E poi l’Editore. E poi la linea comunicazionale del partito/parte/movimento/nonsocheccazzo. E le esigenze promozionali? questi la filippina la dovranno pagare, a fine mese, no? Insomma, alla fine quello che è il ruolo dell’intellettuale in una società civile (immaginaria: da Platone a Gramsci tanta teoria e molti impicci) viene assolto da chi mantiene intatta la capacità di sollecitare, stupire, spiazzare. Una volta c’era il calcio, ma adesso siamo periferia anche lì. Poi è venuta la rete. Finita pure quella: il bisogno di spiazzare è diventato caricaturale, e ora l’unica cosa che funziona – ma solo nel breve periodo – sono le menzogne.

“Durante un funerale a Prati, il morto esce dalla bara e azzanna il prete”; “FERMIAMOLI! dal 1 Aprile gli zingari avranno diritto ad un Loft sull’Aventino”; “il deputato di SEL, Bruno Cazzata, presenta una legge per rendere obbligatori i matrimoni tra uomini e nutrie. FATE GIRARE!”; “Non ci potevo credere: invece è proprio vero. Guarda qui: (link al blog dello stronzo di turno)”; e così via, con altre e varie amenità del genere.
E a cercare di stupirci rimangono due categorie: il Papa – che fa categoria a sé – e i comici, i quali giocoforza diventano portatori delle rivendicazioni della società. A parte Grillo – è chiaro – provate a pensare ai monologhi importanti di Brignano, o di Battista; contrari in un mondo al contrario, condannati a quella responsabilità civile da cui il loro mestiere avrebbe dovuto tenere alla larga. Fanno ridere dicendo la verità. Come fanno, ‘sti poveracci, a rappresentare il faro per la coscienza civile collettiva? Cara Grazia che appena possiamo votare mandiamo Berlusconi a fare “Cucù” alla Culona inchiavabile. Sì, abbiamo bisogno di essere stupiti, ma forse dovremmo metterci d’accordo sulle metodologie!
La verità è che gli italiani sono un popolo di poveracci. È sempre stato così. noi abbiamo le eccellenze, come tutti i popoli mediocri. Non sappiamo più stupirci, perché a parte i comici, c’è rimasto solo il Papa, a provarci. Dice: “Buon pranzo!” la domenica a mezzogiorno e mezza.

Mecojoni.

Siamo sempre stati bòni solo ad andare dietro qualcuno. Che fosse il Re, il Duce, il Papa, Berlusconi, Grillo o Giornalettismo.com, il senso critico dell’Italiano medio si esercita in cucina davanti a Ballarò. O tutt’al più sulle bacheche di Facebook, dove l’ultimo stronzo si sente il Primus inter pares.
Ci hanno raccontato che la democrazia diretta è il futuro, e che la rete rivoluzionerà. L’ha detto Grillo, e poi i secessionisti Veneti. Ecco, quelli magari ci credono davvero.  È un’illusione, pia. Lo sa solo chi ha occhi per vedere e orecchie per sentire. Chi sa che le opinioni non sono tutte uguali, e che la differenza, nelle democrazie dirette, la fa la cultura personale e la capacità di mettere il proprio culo a rischio per uno che non conosci nemmeno.
Insomma, se parla un intellettuale in Italia, non se lo fila nessuno. Magari altri intellettuali, ma è roba a tenuta stagna; poco televisiva, non funziona c’è da rimanere nei 140 caratteri, “ché sennò poi si distraggono, e non leggono più”.
Se invece Francesco mette una vittima di abusi in una commissione atta a condannarli, ci sbrodoliamo in gridolini, perché tanta grazia forse non ce  la meritiamo. Di questo, siamo capaci ancora a stupirci.

Fate di noi quello che volete.

Ma fate qualcosa.