nana-vasconcelos-carnaval.jpgNana Vasconcelos – In memoriam.

Il mondo dei percussionisti è trasversale. Dentro vi confluiscono molte anime, tutte fondamentali allo sviluppo del linguaggio dello strumento. Alcune hanno una matrice etnica: il tamburo è strumento ancestrale, e in quanto tale ad esso si stringono alcuni caratteri identitari. E così c’è una via africana, una indiana, una latina, una euroasiatica e così via. Personalmente credo che si tratti del rapporto che ogni cultura ha con la divisione ritmica (con l’uno, per intenderci), ma tant’è. Poi ci sono gli agonisti: professionisti che studiano e si perfezionano, spaziando tra generi e dialetti, tra pelli e bacchette, tra cornici
e clessidre, meravigliando platee con i loro virtuosismi. Infine – e qui arrivo io – i fricchettoni: quelli che si sentono a proprio agio solo quando menano su una pelle, quando si sciolgono nel fluire nel tempo musicale, innervandolo di suono e sudore. Nana Vasconcelos, che oggi ha lasciato questa valle di lacrime, era il re dei fricchettoni. Un “suonatore di berimbau”, nella letteratura brasiliana, indica un perdigiorno. Ecco, Nana (lo chiamo per nome, come ho sentito fare da quelli spiritualmente più vicini a lui) suonava il Berimbau. Certo, anche il talking drum, le congas, le tabla, le pentole e le forchette. In generale, suonava le mani. No, a sentire la produzione di Pat Metheny dei primi anni ottanta, proprio non sembra che abbia perso tempo. Tutto quello che ha toccato, Nanà l’ha reso magico. Con Gismonti, con Metheny, da solo. Non era un uomo, Nanà: era lo spirito della foresta. Il discorso astratto della creazione. La dinamica di Dio. E tutto questo senza un minimo di aggressività, con quello spirito di fratellanza che hanno solo gli illuminati o i cazzari di un’altra categoria. Se n’è andato lo stesso giorno di George Martin, quasi per “non disturbare”. Mi mancherai, Nanà. Perché sei il primo passo verso l’estinzione dell’ottica musicale che amo di più.