Roma, Domenica delle Palme 2017.

Perché io consideri il tornare da Roma a Brno un nostos (il ritorno di Ulisse a Itaca) non è dato saperlo. Non considero la CZ la mia patria elettiva, bensì una residenza temporanea: non parlo la lingua, non ho relazioni solide con autoctoni, non apprezzo quanto meritano le attrattive locali (dalle belle ragazze – ultimamente bistrattate dal mio atteggiamento senile, scontroso e riparato, alle ottime birre, fino all’offerta di divertimenti, tutti nella piena e consapevole liceità di questa terra.

Brno è il luogo dove vivo e lavoro, dove mi sono  inserito in una società trovando uno sbocco più o meno normale, prodromo per una tardissima vita da adulto. Insomma, diciamo che almeno la possibilità mi è stata concessa, poi crescere non mi piace per ragioni “artistiche”. E qui veniamo al punto.

Senza drammatizzare troppo, ho deciso di portare Garuda in CZ. Per ragioni economiche e di opportunità, da un lato, visto che pago l’assicurazione per un anno quanto pagherei per un mese qui, e il bollo non esiste; ma anche e sopratutto per avere un mezzo di trasporto che mi tenga in contatto con le strade che percorro, per girare queste lande desolate e poter finalmente dire di conoscere il luogo in cui vivo.

Ho investito sulla moto più soldi del suo valore di mercato, perché Garuda merita il meglio, visto che mi accompagna da sempre nelle mie fantasie da “viaggiatore solitario”. Ora, con il mezzo dal meccanico, mi trovo a gestire un Bignami di storia della mia vita: la frenesia – arruffona e infantile – dell’organizzazione del percorso; l’acquisto degli accessori e del vestiario (esaltante), il confronto con la famiglia e con le di lei comprensibili apprensioni.

Ho passato un fine settimana strano, con mia madre lontana pur essendo ad un palmo da me, con Moneti lontana per decisione autolesionista, con le mie adorate Pìpidi lontane come mai sono state, almeno dalla mia mente se non dal cuore. Il viaggio in moto in solitaria è un’esperienza che allontana dal gruppo stretto, e proietta in una comunità strana, astratta e priva di affetti. Mi chiedo se le mie azioni mi stiano portando al centro di me stesso, oppure se non siano un’ennesima bordata che dò al mio tentativo di ricerca di benessere interiore. Non posso fare a meno di chiedermi se questa ulteriore chiusura in me stesso non abbia una qualche segreta velleità distruttiva, invece che essere la porta per uno stato mentale più equilibrato.

Intendiamoci: so bene che non sto affrontando il deserto pietroso della Mauritania, e che non mi sto arruolando nella Legione straniera. Sono 1.500 km divisi in tappe ragionate, con un percorso e un’attrezzatura che sono di puro turismo, in un periodo adatto ai giri in motocicletta. Devo stare sulla moto per un paio di giorni, e ne ho presi quattro per sicurezza, e la meta è casa mia. Sulla carta non si tratta che di una Pasqua alternativa, e di un progetto di risparmio su un mio avere. E sono certo che – alla fine – le cronache familiari lo riporteranno così. Ma in ogni viaggio c’è il senso dell’abbandono, e io, complice un periodo tutt’altro che facile e un ambiente di cui percepisco chiaramente l’assenza di fiducia, non mi sono mai sentito così solo.

A parte Didi. Lei c’è da quando sono nato. Se non fosse per mia sorella, la mia vita sarebbe peggiore, di tanto, e i miei rientri a Roma molto più tristi. Ma chi non ha fratelli non può capire.